Cosa può insegnare ai giovani portieri la storia di JUAN MANUEL FERNÁNDEZ, da ATLETA PROFESSIONISTA ad ALLENATORE MENTALE
Juan Manuel Fernández è cresciuto con il basket nel sangue, immerso in un ambiente in cui talento e sacrificio andavano di pari passo; suo padre, ex giocatore professionista, era conosciuto come “Lobo”, il lupo; lui, inevitabilmente, divenne “Lobito”, il piccolo lupo, un’eredità pesante da portare sulle spalle.
Giocare non era solo una passione, ma una missione; a soli dodici anni dichiarò senza esitazioni a sua madre:
“Voglio andare all’università come giocatore di basket.”
Non era un sogno vago, né un’ambizione da ragazzino, ma una scelta precisa, radicata in una mentalità forgiata nel sacrificio.
L’ascesa al professionismo fu rapida.
Dall’Argentina all’Europa, da Brescia a Trieste, passando per palazzetti gremiti e partite giocate al massimo della concentrazione dove ogni gara, ogni allenamento, ogni possesso palla era un esame da superare, una conferma continua di quel talento che tutti vedevano in lui.
Ma più il livello si alzava, più l’ansia cresceva; più aumentavano le responsabilità, più la paura di sbagliare diventava paralizzante.
La pressione si insinua in modo subdolo: all’inizio è solo un fastidio, poi diventa un pensiero ricorrente, fino a trasformarsi in una prigione mentale da cui non riesci più a uscire. Fernández purtroppo non se ne accorse subito, perché chi è abituato a essere forte non si concede il lusso di sentirsi fragile
Il gioco diventa pesantezza: il crollo silenzioso di un atleta
Ogni mattina si svegliava con un peso crescente sul petto.
Ogni allenamento diventava un ostacolo insormontabile.
Quando saliva in macchina per raggiungere il palazzetto, il viaggio si trasformava in un tormento interiore: arrivato nel parcheggio, restava fermo con le mani sul volante, lo sguardo nel vuoto, bloccato dalla sola idea di dover affrontare un’altra giornata nello stesso modo.
Il pensiero si fece strada lentamente, fino a diventare costante.
“Se mi facessi male, potrei fermarmi.”
Non voleva un infortunio, non lo desiderava davvero, ma sapeva che solo un evento del genere avrebbe potuto concedergli una tregua. E quando un atleta inizia a sperare di farsi male pur di scappare dalla pressione, significa che il problema non è più fisico.
Il problema è mentale.
Queste sono le situazioni che nessuno racconta.
Da fuori, tutto sembrava funzionare: giocava, segnava, contribuiva al successo della squadra. Ma dentro, ogni giorno era un passo in più verso il collasso.
Chi avrebbe potuto capire che dietro quella sicurezza apparente c’era un uomo che stava lottando contro sé stesso?
Nessuno. Perché uno sportivo professionista non può permettersi di crollare.
Fermarsi per salvarsi: la decisione più difficile
Juan non parlava con nessuno.
Come avrebbe potuto?
Non voleva sembrare debole, non voleva deludere chi credeva in lui.
Ma sua moglie lo vedeva: lo guardava ogni giorno, osservava il peso che si portava addosso, le espressioni forzate, la fatica nel nascondere il disagio; fu lei, un giorno, a spezzare quel muro di silenzio: “Parlane. Non puoi più nasconderlo.”
E fu in quel momento che capì di non potercela fare da solo.
Si fermò. Lasciò il basket.
Partì con la sua famiglia, si allontanò da quel mondo che per tutta la vita era stato la sua casa, convinto che solo un distacco netto avrebbe potuto aiutarlo. Lontano dai palazzetti, dalle luci della ribalta, dai ritmi frenetici del professionismo, provò a ricostruire sé stesso.
Ma un atleta non smette mai davvero di esserlo.
E il richiamo dello sport lo riportò indietro.
Quando riprese ad allenarsi, qualcosa era cambiato:
non era più lo stesso giocatore che si portava dentro il peso del fallimento.
Questa volta, aveva una mentalità più forte.
Fu allora che arrivò la chiamata della Reyer Venezia. Una seconda possibilità.
E questa volta, era pronto per coglierla.
Il passaggio da giocatore ad allenatore mentale: l’insegnamento più grande
Fernández aveva sempre pensato che talento, dedizione e allenamento fossero le chiavi del successo.
Ma aveva scoperto nel modo più doloroso che senza una mente forte, tutto il resto non serve.
Così decise di trasformare la sua esperienza in qualcosa di utile per gli altri.
Diventò un allenatore mentale
Ora aiuta gli atleti a costruire quella corazza mentale che lui, all’inizio, non aveva. Li guida prima che sia troppo tardi.
Li prepara a gestire la pressione, ad affrontare i momenti di difficoltà, a non lasciare che la paura di fallire prenda il sopravvento.
Perché lo sport è crescita, passione e sfida, ma è anche pressione, ansia e paura di sbagliare.
Senza la giusta preparazione mentale, può distruggere anche il talento più grande.
E tuo figlio? Ha già gli strumenti per gestire la pressione?
Juan Fernández ha avuto la fortuna di trovare la sua strada, ma a che prezzo? Ha dovuto toccare il fondo, perdere l’amore per lo sport, spegnersi giorno dopo giorno prima di trovare una via d’uscita.
Quanti altri giovani portieri stanno vivendo una pressione che non sanno gestire?
In una nostra recente formazione i giovani portieri hanno manifestato il “peso” di portare sulle spalle una responsabilità quasi inspiegabile, che gli viene buttata addosso dal mondo del calcio.
Avvertono la responsabilità di non potersi concedere errori, altrimenti sarebbero l’unico motivo della sconfitta della squadra.
Sei d’accordo con me allora che se tuo figlio porta questo “peso” sulle spalle, ci deve essere per forza qualcuno che lo aiuti a ridimensionare quello che vive per sentirsi più libero e spensierato nello sport e nel ruolo del portiere?E là fuori Quanti ragazzi oggi si sentono inadeguati, frustrati, convinti di non essere abbastanza solo perché nessuno ha mai insegnato loro a gestire la propria mente?
Perché questa è la realtà:
lo sport non è solo fisico, è soprattutto questione di testa.
Ogni giorno in più, sento genitori lamentarsi perché il loro figlio sembra bloccato, insicuro, incapace di esprimere davvero il suo talento. Ma la domanda è:
lo stai aiutando nel modo giusto?
Gli stai dando gli strumenti per affrontare la pressione o lo stai lasciando solo, sperando che prima o poi “gli passi”?
Se perfino un professionista ha vissuto tutto questo, come può un giovane portiere farcela da solo?
Fortunatamente i giovani portieri che hanno trovato nell’ allenamento mentale l’efficacia di sentirsi liberi di poter sbagliare e sperimentare il ruolo con coraggio possono essere da guida a chi oggi ancora pensa che sia utile solo l’allenamento tecnico in campo.
💡 Se vuoi davvero aiutare tuo figlio a diventare forte e sicuro, devi dargli gli strumenti giusti.
Scopri come allenare la sua mente è il primo passo per proteggerlo dalle difficoltà che ogni atleta, prima o poi, deve affrontare.
📞 Contattami al 350 520 5325 o scrivimi a [email protected] per capire come puoi aiutarlo oggi, prima che sia troppo tardi
Fuoco, Forza, Fede
Daniele Rolleri
Primo esperto in Italia nell’allenamento mentale per il giovane portiere